1 Avellino-Torino – Viaggio dal Fiat-Nam al tetto del mondo

AdMa (al secolo Adriano Marenco) è un drammaturgo rappresentato in Italia e Polonia, un romanziere, e
ha lavorato per varie testate nazionali come critico culturale. È cresciuto tra Roma, dove è nato, e la Val
Pellice. La Juventus è la sua ossessione da quando suo padre lo portava a Villar Perosa a vedere Juve A –
Juve B. Nel suo lavoro per NoiBianconeri cerca di unire le sue passioni, la cultura e il calcio.

Perché la rubrica si chiama La fabbrica dell’assoluta emozione? Beh, La fabbrica dell’assoluto è un romanzo
di Karel Čapek pubblicato nel 1922. L’ingegner Marek inventa un Carburatore che distrugge la materia,
trasformandola in un’energia praticamente infinita e gratuita. Ovviamente l’invenzione verrà usata per fare
denari. G.H. Bondy s’impossessa del brevetto miracoloso per i suoi scopi affaristici. I Carburatori vengono
installati ovunque. Nella loro incessante disintegrazione della materia sopravvive una sorta di energia. La
materia scompare del tutto, meno questa energia volatile. Il cuore stesso della materia. Questa energia che
si sprigiona è l’Assoluto, forse Dio stesso. Questa energia quando viene respirata “travia” le persone
trascinandole verso lo spiritualismo e verso la bontà. Da questa bontà viene fuori una catastrofe dietro
l’altra, nulla sopravvive all’assoluto, dall’industria alla diplomazia, fino allo scoppio di una guerra
devastante. Il calcio inverte questo processo, è nato come fabbrica dell’emozione assoluta ed ha finito per
imprigionarla a fini economici. Ma resta una religione di gruppo, non una scienza esatta e l’economia
sprigionata dal Gioco potrà resistere ed esistere solo finché sarà in grado di fabbricare ancora l’assoluta
emozione. Altrimenti tutto il movimento calcistico, il teatro dei sogni, crollerà su sé stesso.

Avellino-Torino – Viaggio dal Fiat-Nam al tetto del mondo.
Basilea, 16 maggio 1984: Juventus – Porto 2-1. Nel tabellino della finale di Coppa delle Coppe spicca, al
minuto 13, il nome di Beniamino Vignola. Portiere titolare Stefano Tacconi.
Torino, 16 gennaio 1985: Juventus – Liverpool 2-0. La squadra che annichilì il Liverpool campione d’Europa,
alzando la sua prima Supercoppa Europea, vedeva in campo Favero e a disposizione Tacconi e Vignola.
Bruxelles, 29 maggio 1985: Juventus – Liverpool 1-0. Nella squadra che alzò la coppa maledetta troviamo in
porta ancora Stefano Tacconi, in difesa Luciano Favero e subentrante Beniamino Vignola.
Tokyo, 8 dicembre 1985: Juventus – Argentinos Juniors 6-4 dopo i calci di rigore. Tacconi e Favero giocano
titolari la partita che colloca la Juventus sul tetto del mondo.
Ma cosa hanno in comune Vignola, Tacconi e Favero in quella squadra meravigliosa guidata dal Trap?
Quella squadra che alzò per la prima volta la Supercoppa, la Coppa delle Coppe, la Coppa dei Campioni e la
Coppa Intercontinentale aveva un’anima che veniva da una discreta squadra campana, che in quegli anni
viveva i suoi anni migliori: l’Avellino. Quell’anima operaia sulla quale la Juventus ha fondato la sua nobiltà.
Esattamente come gli Agnelli. Anche la Fiat aveva fondato la sua nobiltà sul sudore dell’operaio. Infatti ora
che l’operaio sta scomparendo anche il nome Agnelli sta declinando.
Vignola giocò nell’Avellino dal 1980 al 1983 e poi dal 1983 al 1988 vestì la maglia del Real Casa, a parte un
anno giocato con il Verona. Tacconi, come il re di coppe Vignola, giocò con i Lupi dal 1980 al 1983 e poi
divenne un simbolo della Juventus, il portiere che per 10 anni dal 1983 al 1992 difese i pali della Vecchia

Signora. Luciano Favero, mastino fluidificante della difesa, arrivò un anno dopo e rimase in bianconero fino
al 1989.
Tacconi, Favero e Vignola hanno messo la loro firma sul decennio d’oro della Juve.
Qualche anno prima, siamo nel 1973, esce il film più potente di Ettore Scola, il regista di C’eravamo tanto
amati, Brutti, sporchi e cattivi e Una giornata particolare. Il titolo del film è simbolo di un’era: Trevico-
Torino – Viaggio nel Fiat-Nam. Attenzione Trevico e non Treviso, come si dice nelle prime battute del film.
Trevico è un piccolo comune italiano di circa mille anime in provincia di? Ovviamente Avellino.
Naturalmente al Fiat-Nam fa eco il conflitto del Viet-Nam, l’atroce guerra che ha segnato gli Stati Uniti che
per 20 anni, fino al 1975, si è impantanata in quella che è diventata la più grande cicatrice della sua storia.
In una mitologia che va dal dramma dei reduci ad Apocalypse Now. La guerra che ha sconvolto la tenuta
morale e sociale della più grande forza al mondo e che ha seminato di milioni di morti innocenti il Viet-Nam
nella sua eroica resistenza contro gli USA. Adoro l’odore del Napalm di prima mattina. Quanta carne al
fuoco. Ovviamente il titolo è irriverente, sono tragedie di proporzioni molto diverse. Ma ogni paese ha il
suo dramma e serve a Scola per collegare la tragedia dell’imperialismo a stelle e strisce a quella del
capitalismo nostrano: il massacro vero dei contadini là, il massacro, meno cruento, di quei contadini
diventati operai qua. Gli operai alla catena di montaggio servivano vivi. E poi, visti dall’occidente, i morti
hanno un peso specifico tanto differente.
Il ragazzo che arriva da Trevico a Porta Nuova si chiama, ironia della sorte, Fortunato Santospirito. Viene a
Torino ad inseguire un incubo che però visto da Trevico assomiglia più a un sogno. Lavorare alla Fiat
naturalmente. Assorbe tutti i mantra dell’epoca, la rivoluzione operaia, l’amore respinto per una
studentessa borghese che si può permettere la protesta, il comunismo, il razzismo verso gli immigrati, il
sindacalismo, fino a costruirsi la coscienza della sua condizione di schiavo salariato. Scola con uno stile
marxiano, documentaristico e a tratti brechtiano descrive il Fiat-Nam del lavoro in Italia, che certamente
non apparteneva solo alla Fiat, anzi. Fortunato correndo tra le macerie e gli scarti industriali racconta in una
lettera cosa succede davvero a Torino. Dicono che l’Italia sia un paese povero, non può dare lavoro a tutti a
casa loro. Non è così. Poveri sono gli operai, i braccianti, i contadini perché è così che il governo e i padroni,
che poi è la stessa cosa, li vuole.
Erano altri tempi, erano gli anni settanta. In un certo senso erano ancora i tempi lunghissimi del
dopoguerra; e come si dice in C’eravamo tanto amati: La guerra finì e scoppiò il dopoguerra. E poi il Boom
industriale. Altri tempi. Tutto è cambiato. Oh no? Forse è cambiato almeno il nome. Sicuramente il nome
degli schiavi.
A Torino però non c’era solo la Fiat, c’era anche la sua emanazione diretta, popolare, c’era un po’ di pane e
anche il grande circo. C’era la Juventus. Il sogno bello per milioni di persone, l’entusiasmo, la passione,
anche io posso vincere se credo in te. In un certo senso un sogno che affiancava quello dei collettivi operai.
Un sogno che quasi sempre scorreva parallelo e a volte si intrecciava all’altro. Detto di passaggio due tra i
primi gruppi storici di tifosi ultras della Juventus sono stati i Venceremos, e Autonomia Bianconera, credo
che sia facile intuire che fossero gruppi schierati politicamente all’estrema sinistra.
Insomma la Fiat non fabbricava solo automobili, fabbricava anche l’emozione, appunto.
In nome di questa emozione, così come dal sud venivano gli operai, spesso nelle squadre del sud si
forgiavano i calciatori che avrebbero formato l’ossatura della nostra Juventus. E torniamo all’Irpinia e ad
Avellino.
Stefano Tacconi e Beniamino Vignola sono stati il portiere titolare e il miglior marcatore degli irpini nella
stagione 1980-81. Una stagione che nel bene e soprattutto nel male non verrà mai dimenticata in Irpinia. In
campionato l’Avellino ha 5 punti di penalizzazione per il calcio scommesse. Il 23 novembre 1980 la terra

tremò con una violenza devastante. Un terremoto che mise in ginocchio tutta la zona. Tra le macerie
tremila morti e trecentomila sfollati. Salvatore Di Somma, simbolo di quell’Avellino, ricorda quei giorni:
C’erano delle situazioni drammatiche, morti a terra, gente che tirava i propri parenti dalle macerie. C’è una
cosa che però non dimenticherò mai. Una signora, a piazza Libertà, mentre piangeva i suoi cari mi disse:
Salvatore, hai visto che è successo? Però oggi che bella vittoria abbiamo fatto…
Il calcio, oppio dei popoli? Forse. Io resto personalmente convinto che se non esistesse il calcio non
avremmo la pace, il benessere e il migliore dei mondi possibili, come sono certo che chi investe nel calcio
non costruirebbe case, scuole ed ospedali non sapendo che farsene di quei soldi destinati agli stipendi dei
calciatori.
Fatto sta che in mezzo a quell’immane tragedia, con i punti di penalizzazione, quell’Avellino fece l’impresa.
Riuscì a salvarsi all’ultima giornata. Entrando con i suoi cavalieri per sempre nel cuore di quel popolo colpito
a morte dal terremoto. E appunto Vignola e Tacconi erano tra i due cavalieri più luccicanti.
Vignolino, come lo chiamava Platini, e Tacconi arrivarono a Torino nel 1983. Tacconi viene scelto per
sostituire uno dei più grandi portieri di tutti i tempi: Dino Zoff. Un compito da far tremare le vene dei polsi.
Ma a Stefano, che a prima vista ha un carattere diametralmente opposto a quello di Zoff, riesce anche
questa impresa. Tacconi, detto Tarzan, era uno spavaldo guascone, Zoff un silenzioso monumento friulano,
ma al fondo tutti e due avevano un carattere di ferro. E poi si ritrova davanti una linea composta da Gentile,
Cabrini, Brio e Scirea. Non proprio un quartetto difensivo di scappati di casa. La sua più grande impresa fu
regalarci la Coppa Intercontinentale parando due rigori nella lotteria di Tokyo.
Vignola arriva a Torino con le stimmate del talentino. Pare sia stato Michel Platini a suggerire il suo
acquisto. Beniamino era un regista avanzato ma era il cambio giusto per l’attacco stellare di quella Juve:
Platini, Boniek e Pablito Rossi. E lui riesce non solo a ritagliarsi uno spazio tra i fenomeni, ma anche ad
incidere nei cuori bianconeri il suo nome con la rete nella finale di Coppa delle Coppe. Ma questa è gente
che ha salvato l’Avellino nell’anno del terremoto e della penalizzazione. Non proprio gente qualunque.
L’anno dopo, nel 1984 a Torino invece sbarcò il nostro terzo uomo. Luciano “Baffo” Favero. Fu un solido
terzino di spinta e contenimento. All’inizio sembrava destinato alla Lazio come merce di scambio, invece
piano piano conquistò la maglia da titolare e il cuore degli juventini. Non prima di un periodo difficile
dovuto ad un suo sentirsi inadeguato di fronte ai tanti campioni in bianconero. Ma la Juve ha sempre avuto
bisogno di uomini come Favero per vincere le partite. E infatti una volta annullato Maradona in un
Juventus-Napoli nacque il Luciano Favero che ricordiamo. Era un uomo pulito l’erede di Gentile, era un
uomo, un uomo da Juve.
Il filo verde-bianconero che lega Juve e Avellino ha visto anche un gemellaggio tra le due tifoserie, che va
dalla solidarietà post terremoto, alla bolgia della finale di Coppa UEFA giocata al Partenio e l’amicizia
continua ancora.
Ricordiamo inoltre che in campo neutro, proprio allo stadio Partenio di Avellino, la Juve alzò nel 1990 la
Coppa Uefa nella doppia finale con la Fiorentina. In quella Juve c’era ancora Stefano Tacconi e poi un altro
ragazzo venuto dall’Avellino, Angelo Alessio.
Una lunga storia quella tra la Vecchia Signora e i Lupi. Una storia che ha portato a successi incredibili, per
quella squadra che aveva sì alcuni dei più forti giocatori del mondo, ma anche un’ossatura solidissima
cresciuta a pane e Partenio.
Vignola e Favero, ragazzi del profondo nord, diventati calciatori veri ad Avellino. Tacconi, da Perugia per
raggiungere l’empireo, un ragazzo di estro diventato adulto in Irpinia. Tre storie diverse eppure simili, con
la Juve e l’Irpinia nel cuore. Tre destini legati tra loro e destinati alla Juve più forte della storia.

La Juve, la Fiat, gli operai, i calciatori, l’Irpinia, l’Avellino. Una storia tra amore e sudore, tra fatica e
splendore. Per alcuni è stato il Fiat-Nam, per altri calcare i campi più prestigiosi. Ma una cosa l’hanno fatta
insieme. Hanno alzato tutte le coppe più belle. L’operaio e Favero, insieme. Comunque una storia
indissolubile. La Juve e gli Agnelli, due nobiltà fondate sull’operaio. Certe radici non andrebbero mai
tagliate, magari coltivate meglio. Certo non sono più gli anni settanta e neanche gli anni ottanta. Ma il
calcio non deve mai scordare che esisterà solo finché saprà fabbricare l’emozione. Mai recidere l’assoluto,
mai recidere quel legame mistico, che in un secolo, ha saputo creare in un secolo con il suo popolo.
AdMa

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